L’incontro tra Antonio Scurati e Michela Ponzani alla Repubblica delle idee
Nel panorama culturale italiano contemporaneo, pochi temi risultano urgenti quanto la riflessione sui meccanismi che conducono le società democratiche verso derive autoritarie. L’incontro “M, anatomia dei regimi” tra Antonio Scurati e Michela Ponzani, nell’ambito della Repubblica delle idee, ha affrontato questa questione con la lucidità spietata che caratterizza il lavoro di entrambi gli studiosi.
I protagonisti del confronto
Antonio Scurati, scrittore e docente di Letterature contemporanee presso la IULM di Milano, è divenuto una delle voci più autorevoli nel panorama letterario italiano grazie alla sua monumentale opera dedicata a Benito Mussolini. La saga iniziata con “M. Il figlio del secolo”, vincitore del Premio Strega nel 2019, ha ridefinito i confini della narrativa storica italiana, coniugando rigore documentale e potenza narrativa per raccontare uno dei periodi più bui della storia nazionale.
Michela Ponzani, storica e docente di Storia contemporanea all’Università di Roma “Tor Vergata”, ha costruito la sua carriera specializzandosi nella storia dell’antifascismo e della Resistenza. Autrice e conduttrice di programmi culturali per Rai Storia e La7, i suoi studi si concentrano sui meccanismi della memoria storica e sulla trasmissione della coscienza democratica.


La domanda che inquieta: siamo davvero al riparo dalla storia?
Il cuore del dialogo ruota attorno a un interrogativo che Scurati pone con inquietante attualità: siamo noi, al momento privilegiati, destinati a conoscere gli orrori di una guerra anche se figli o nipoti di persone che hanno vissuto gli orrori delle precedenti guerre?
La domanda tocca uno dei nodi più problematici della contemporaneità europea. Nonostante la trasmissione della memoria storica attraverso le generazioni, nonostante il “mai più” pronunciato dai sopravvissuti ai conflitti del Novecento, sembra che la pace e la prosperità di cui godiamo non siano garanzie permanenti contro il ritorno della barbarie.
Scurati invita a sviluppare quello che definisce un “pensiero per la guerra”: non l’auspicio del conflitto, ma la consapevolezza che la pace non è uno stato naturale. “Viste le situazioni politiche che ci circondano”, osserva lo scrittore, “dovremmo essere pronti ad avere un pensiero per la guerra e non girarci dall’altra parte quando sentiamo notizie del genere”.
Il nodo dei nodi: regimi e guerre
“Questo è il nodo dei nodi”, risponde Michela Ponzani, individuando il legame strutturale tra l’emergere di regimi autoritari e il ritorno della guerra nel quotidiano contemporaneo. La storica stabilisce una connessione causale che la storia del Novecento ha già drammaticamente illustrato: i regimi autoritari necessitano di nemici esterni per legittimare il proprio potere interno.
La riflessione della Ponzani si sofferma su una rimozione particolarmente pericolosa della memoria collettiva italiana: “Gli italiani sembrano aver dimenticato il ventennio fascista dove si era perennemente in guerra”. Dal 1935 con l’aggressione all’Etiopia fino alla catastrofica partecipazione alla Seconda guerra mondiale, il regime di Mussolini trascinò l’Italia in un conflitto quasi ininterrotto. Eppure questa realtà storica incontrovertibile è stata sostituita da una narrazione nostalgica che ricorda il fascismo attraverso il filtro delle “bonifiche” e dei “treni in orario”.
L’illusione democratica e la deriva autoritaria
L’analisi di Scurati si spinge oltre, affrontando quella che definisce “l’illusione della democrazia”. Lo scrittore smonta l’idea consolatoria che la democrazia sia un sistema naturalmente resiliente, portando ad esempio il caso di democrazie consolidate come Israele e Stati Uniti che “stanno virando verso l’autocrazia”.
Questi esempi sono particolarmente significativi perché dimostrano che il virus dell’autoritarismo può infettare anche le democrazie che sembravano più solide. La lezione che emerge è che la democrazia non è uno stato di natura, ma un artificio politico che richiede manutenzione costante e vigilanza civile.
L’algoritmo dell’odio: dalla paura al nemico
Scurati delinea con precisione chirurgica la meccanica del potere autoritario, un processo che si ripete con inquietante regolarità: i regimi fomentano paura nel popolo, la tramutano in odio e compattano tutti i problemi sociali in un unico bersaglio – il nemico straniero invasore che va eliminato.
Il meccanismo è un vero e proprio algoritmo della manipolazione politica. Prima si semina la paura, alimentando ansie diffuse attraverso propaganda martellante. Poi si trasforma la paura in odio, canalizzando l’ansia verso un bersaglio specifico. Infine si semplificano tutti i problemi sociali riconducendoli a un’unica causa: la presenza del nemico.
Il nemico di casa nostra
Ponzani riporta questa analisi teorica all’attualità italiana con un’osservazione che fa riflettere: “Oggi il nemico interno è il nostro vicino di casa. Stranieri che spesso sono più italiani e parlano meglio dei nostri nonni”. È un paradosso che svela l’inconsistenza razionale della propaganda xenofoba: il “nemico” che dovrebbe minacciare la nostra identità è spesso più integrato e competente linguisticamente di chi lo rifiuta.
Questa trasformazione del vicino di casa in nemico interno è particolarmente insidiosa perché avviene in contesti di prossimità, dove la conoscenza diretta dovrebbe smontare i pregiudizi. Invece, la potenza della narrazione d’odio riesce a far prevalere lo stereotipo sulla realtà vissuta.
Il dovere della memoria
L’appello della Ponzani assume particolare forza quando richiama gli italiani alla propria memoria storica: “Come italiani che hanno subito numerose stragi nazifasciste” dovremmo ragionare su questi temi con maggiore consapevolezza. Le stragi nazifasciste – dalle Fosse Ardeatine a Sant’Anna di Stazzema, da Marzabotto ai centinaia di eccidi che hanno insanguinato la Penisola – non furono episodi casuali, ma il prodotto di una strategia di terrore fondata sulla disumanizzazione del nemico.
Ragionare su questi temi significa onorare la memoria di quelle vittime non con la retorica celebrativa, ma con la vigilanza democratica. Significa riconoscere che il “mai più” non è un automatismo storico, ma un impegno che ogni generazione deve rinnovare.
Il futuro nelle mani delle nuove generazioni
La conclusione di Scurati è di un pessimismo lucido ma non rassegnato: “Anche se ne stiamo parlando non riusciremo a sconfiggere questo andamento. Continueremo a raccontare sapendo che pochi ascolteranno”. È il dramma degli intellettuali in ogni epoca di crisi: predicare nel deserto, sapendo che il deserto continuerà a essere tale.
Ma lo scrittore identifica il punto di leva su cui è ancora possibile agire: “Dobbiamo educare le nuove generazioni consapevoli che se i giovani non sanno niente è perché noi non gli abbiamo insegnato niente”. È un’autocritica spietata quanto necessaria: la responsabilità dell’ignoranza storica dei giovani ricade sugli adulti che hanno fallito nel loro compito educativo.
Seminare nella tempesta
“Dobbiamo seminare ogni giorno per costruire un mondo migliore”, conclude la Ponzani, ma aggiunge una considerazione drammatica: “Se i vertici istituzionali alimentano odio e violenza non so che futuro si potrà avere”. È il paradosso più doloroso delle democrazie in crisi: quando le istituzioni che dovrebbero garantire coesione sociale diventano amplificatori di divisione, l’opera di educazione dal basso diventa titanica.
La metafora agricola della Ponzani evoca la pazienza necessaria per ogni processo educativo, ma solleva anche una domanda cruciale: cosa succede quando chi dovrebbe proteggere i germogli della democrazia li calpesta sistematicamente?
Una speranza necessaria
Nonostante la lucidità implacabile dell’analisi, la Ponzani sceglie di chiudere con una nota di speranza. Non è ottimismo ingenuo, ma speranza come categoria politica, come atto di resistenza al determinismo storico. È la speranza di chi conosce abbastanza la storia per sapere che anche nei momenti più bui si sono aperte possibilità inattese di cambiamento.
L’Italia ha già vissuto il passaggio dalla dittatura alla democrazia, dalla guerra alla pace, dall’odio razziale alla Costituzione più avanzata d’Europa. Se è successo una volta, può succedere ancora. In fondo, continuare a sperare è l’ultimo atto di libertà che rimane quando tutto sembra perduto.
Epilogo: l’urgenza del presente
L’incontro tra Scurati e Ponzani restituisce un quadro inquietante ma necessario del presente. La loro analisi non è catastrofismo, ma lucida diagnosi di fenomeni che attraversano le democrazie occidentali. Il messaggio che emerge è chiaro: non possiamo permetterci di girare lo sguardo dall’altra parte, di credere che la storia sia finita con la caduta del Muro di Berlino.
La democrazia non è un approdo definitivo, ma una navigazione continua in mari spesso tempestosi. E se è vero che ogni generazione deve riconquistare la libertà, allora il compito della nostra è duplice: riconoscere i pericoli del presente e preparare le armi intellettuali per chi verrà dopo di noi.
L’anatomia dei regimi che Scurati e Ponzani hanno dissezionato non è solo un esercizio di memoria storica, ma un manuale di sopravvivenza democratica per il XXI secolo. Un manuale che, forse, siamo già in ritardo nel consultare.