Marco Aime al MAST esplora i paradossi di un concetto tanto abusato quanto frainteso
L’antropologo genovese ha decostruito il mito delle identità statiche davanti a un pubblico partecipe, nell’ambito della mostra “Communautés” di Mohamed Bourouissa
Il MAST di Bologna ha ospitato una riflessione profonda e necessaria sui meccanismi che regolano le nostre società contemporanee. Marco Aime, antropologo dell’Università di Genova, ha proposto un’analisi critica del concetto di comunità che ha saputo andare ben oltre le retoriche del nostro tempo, smontando luoghi comuni e offrendo chiavi di lettura inedite.
Il metodo collaborativo di Bourouissa come chiave d’accesso
Francesco Zanot, curatore della mostra “Communautés” di Mohamed Bourouissa, ha introdotto l’incontro collegando il lavoro del fotografo franco-algerino al tema della serata. Il metodo di Bourouissa, ha spiegato Zanot, si basa sulla collaborazione diretta con i suoi soggetti: “Ha abitato e convissuto insieme a loro”, creando un rapporto di fiducia che traspare dalle sue immagini. Un approccio che ben illustra come le comunità si costruiscano attraverso relazioni autentiche e condivise.


La trappola linguistica e il peso delle parole
Aime ha esordito con una considerazione apparentemente tecnica ma dalle implicazioni profonde: in italiano, diversamente dal francese, la parola “comunità” non ha plurale. Una particolarità linguistica che rivela già la complessità del concetto e le trappole semantiche che nasconde.
“La comunità è un progetto e vive del progetto”, ha affermato l’antropologo, sottolineando come ogni aggregazione sociale si costruisca sulle relazioni e necessiti di una visione del futuro per sopravvivere. Ma questo progetto richiede memoria: “Serve una memoria per fare comunità, ma troppa memoria va a scapito del futuro”.
I rituali come collante sociale
Un passaggio centrale dell’intervento ha riguardato il ruolo dei rituali nell’identificazione comunitaria. “Per identificarsi in una comunità serve un rituale che deve coinvolgere”, ha spiegato Aime, aprendo una riflessione sui meccanismi che permettono a un gruppo di riconoscersi e mantenersi coeso nel tempo.
Il concetto si è arricchito quando, rispondendo a una domanda del pubblico sul ruolo della religione, l’antropologo ha ricordato l’etimologia del termine: “Religione significa legame, rilegare, pertanto è molto importante” nella costruzione del tessuto comunitario.

Le comunità come “recinti aperti”
Il momento più illuminante della serata è arrivato quando Aime ha introdotto la sua metafora più efficace: le comunità come “recinti aperti”. Luoghi che offrono struttura e appartenenza, ma che permettono anche l’ingresso e l’uscita, favorendo l’assimilazione di nuove influenze e il perpetuo cambiamento.
L’antropologo ha demolito il mito delle identità pure attraverso esempi concreti: dal pensiero greco, frutto di contaminazioni continue, alla cucina italiana, risultato di scambi multiculturali stratificati nel tempo. “Le culture sono intrinsecamente dinamiche e frutto di scambi continui”, ha ribadito, mostrando come l’identità comunitaria sia una costruzione fluida, costantemente ridefinita da interazioni, piuttosto che un’entità statica e isolata.
Le sfide del presente: voto, memoria e digitale
Il dibattito con il pubblico ha toccato questioni di bruciante attualità. Una domanda ha colpito nel segno: “Il fatto che non si vota più come prima significa quasi non più appartenere a una comunità?”. Un interrogativo che ha aperto la riflessione sui cambiamenti nei meccanismi di partecipazione democratica.
Particolarmente toccante è stata la questione posta sulla comunità americana: “Sembra che abbia dimenticato il passato. Sta scomparendo la generazione che ha vissuto la guerra”. Una considerazione che ha portato Aime a riflettere sul delicato equilibrio tra memoria e futuro, ricordando che “chi non conosce il passato è destinato a ripeterlo”.
Significativo anche il confronto sulle comunità digitali. “La rete non avendo territorio già viene meno un elemento della comunità, ma questo potrebbe essere anche un vantaggio”, ha osservato l’antropologo, pur segnalando come elemento critico la mancanza di empatia nel web. Tuttavia, ha concluso, “la rete è comunque un’ottima opportunità per creare comunità reali offline”.
Il bisogno ancestrale di appartenenza
Aime ha chiuso il suo intervento con una verità antropologica fondamentale: “L’uomo ha bisogno di una comunità, di vivere in simbiosi con altri esseri umani”. Una conclusione che, dopo un’ora di decostruzione critica, ha restituito dignità e senso profondo a un concetto troppo spesso banalizzato.
L’incontro al MAST ha dimostrato come sia possibile parlare di temi complessi senza cadere nelle semplificazioni, offrendo al pubblico bolognese strumenti critici per orientarsi nella complessità del presente. Le comunità, ha insegnato Aime, non sono fortezze da difendere ma organismi viventi da far crescere, capaci di accogliere il cambiamento senza perdere la propria identità.
Un messaggio più che mai necessario in un’epoca che tende a contrapporre identità e apertura, dimenticando che la vera forza delle comunità risiede proprio nella loro capacità di essere, appunto, “recinti aperti”.