Asghar Farhadi: “Il cinema non deve dare risposte”

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Il regista iraniano premio Oscar racconta la sua poetica attraverso “The Salesman” e riflette sul futuro del cinema d’autore 

Al MAST di Bologna, il maestro iraniano del cinema contemporaneo ha svelato i segreti della sua poetica attraverso “The Salesman”, esplorando come la crisi diventi lo strumento privilegiato per scoprire la verità dei personaggi e coinvolgere il pubblico in una riflessione morale senza risposte preconfezionate.

La Fondazione MAST di Bologna ha ospitato uno degli appuntamenti più significativi della stagione: l’incontro con Asghar Farhadi, due volte Premio Oscar e tra i più raffinati narratori del cinema contemporaneo. In dialogo con Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna, il regista iraniano ha svelato i meccanismi della sua poetica attraverso l’analisi de “The Salesman” (Il Cliente, 2016), film che gli è valso il secondo Oscar come Miglior Film Internazionale.

Un incontro che ha rivelato un artista dalla profonda consapevolezza teorica, capace di articolare una visione del cinema che va oltre la mera narrazione per diventare strumento di indagine sulla natura umana e sulla complessità morale del nostro tempo.


Il Teatro come Scuola di Vita

“Ho studiato teatro per sette anni”, rivela Farhadi, “una deviazione dalla mia intenzione iniziale di studiare cinema che si è rivelata fondamentale”. Dal mondo teatrale ha assorbito due elementi che definiscono ancora oggi la sua cifra autoriale: la concezione del dramma come crisi e un metodo di lavoro con gli attori che sfida le convenzioni cinematografiche.

Per il regista iraniano, il dramma nasce intrinsecamente da “una situazione, una crisi che si esplora strato dopo strato” per scoprirne il nucleo. È nella crisi che si può “scoprire la vera personalità dei personaggi più facilmente”, perché mentre nelle situazioni normali tutti tendono a comportarsi similmente, “in una crisi ognuno reagisce in modo diverso”. La crisi diventa così un banco di prova che rivela le autentiche reazioni e decisioni umane, permettendo al pubblico di accedere alla verità più profonda dei caratteri.

Questa visione lo ha portato a studiare i maestri della drammaturgia – Ibsen, Strindberg, Chekhov, Arthur Miller – che considera “essenziali per chiunque voglia fare un dramma nel cinema”. La scoperta di Ibsen, in particolare, è stata per lui “come un nuovo mondo”.

Il suo approccio al lavoro con gli attori riflette questa formazione teatrale: lunghe prove che possono durare “3 mesi, 4 mesi, persino il mio ultimo è stato un anno di prove”, in netto contrasto con la pratica cinematografica standard che concede agli interpreti “uno o due giorni prima delle riprese”. L’obiettivo è permettere agli attori di immergersi completamente nei personaggi e nella situazione di crisi che dovranno abitare.

L’Universale nel Particolare

“Più locale è più universale”, sostiene Farhadi, articolando una filosofia che ha reso i suoi film iraniani comprensibili e toccanti per pubblici di tutto il mondo. Le emozioni fondamentali – “l’amore e l’odio” – sono universali, anche se le loro espressioni variano culturalmente. “Il sapore dell’amore tra una madre e un figlio è lo stesso ovunque”, spiega, citando l’esempio del cinema italiano che, pur radicato in contesti sociali specifici, ha sempre parlato un linguaggio universale.

Questa tensione tra specificità culturale e risonanza globale è particolarmente evidente ne “The Salesman”, dove la crisi che investe Emad e Rana Etesami – interpretati magistralmente da Shahab Hosseini e Taraneh Alidoosti – nasce da dinamiche sociali profondamente iraniane ma tocca corde emotive che appartengono all’intera umanità. La forza della cultura iraniana, secondo Farhadi, risiede anche nella peculiarità della lingua persiana, descritta come “una lingua indiretta e a strati”, simile alla natura stratificata del cinema stesso.

La Democrazia dei Personaggi

Nell’universo narrativo di Farhadi non esistono gerarchie tra personaggi. “Non penso quale sia il personaggio principale e quale quello secondario”, dichiara. Un personaggio apparentemente “secondario” può diventare “principale” se le sue decisioni “cambiano la direzione della storia”. Tutti i suoi personaggi sono coinvolti nella stessa crisi, e il regista mantiene una “distanza equa e imparziale” da ciascuno di loro, permettendo al pubblico di “capire le loro ragioni” senza giudizio.

Questa filosofia si radica nella distinzione che Farhadi opera tra tragedia classica e tragedia moderna. Mentre nella tragedia classica il conflitto oppone “cattivo e buono” e il pubblico desidera la vittoria del bene, nella tragedia moderna “il conflitto è tra buono e buono”. Si crea così un “dilemma” per gli spettatori, che non sanno “chi dovrebbe vincere” o “chi ha più ragione”, generando una riflessione morale complessa e ambigua.

Il Pubblico come Co-Autore

Farhadi promuove una “relazione democratica” tra film e pubblico, rifiutando l’idea che il regista debba “dettare qualcosa” agli spettatori. Al contrario, crede che l’artista debba “condividere le proprie domande, i propri dubbi”. L’obiettivo non è fornire risposte ma stimolare il pensiero: “il processo di pensare è l’obiettivo, cosa pensano non importa, solo pensare è l’obiettivo”.

Il regista desidera che il pubblico “faccia parte della storia”, che si senta “in questa crisi, in questa situazione” e debba “decidere quale strada è più morale”. Questo rispetto per l’intelligenza degli spettatori implica che essi possano “capire tutto, forse più del regista”, trovando interpretazioni che l’autore stesso non aveva previsto.

Realismo e Segni: Il Dramma del Quotidiano

A differenza di alcuni maestri del cinema iraniano precedente che facevano largo uso del simbolismo, Farhadi preferisce lavorare con i “segni”. “Non credo nel simbolismo in un approccio realistico”, spiega. “I simboli hanno un significato dietro, mentre i segni danno un sentimento, non un significato”. Come esempio cita le scale in “A Hero”: “Quando le si ripete molto, tutti questi elementi, tutti questi segni insieme ti danno la sensazione che si tratti di qualcosa che riguarda il salire, lo scendere, il fare un eroe”.

I suoi drammi nascono da “dettagli molto ordinari”, da “cose molto semplici e senza valore” della vita quotidiana. Questo rende le sue storie universali, poiché le crisi provengono da elementi comuni a tutti, permettendo al pubblico di pensare “può succedere a me o al mio vicino”. La missione di Farhadi è rivelare gli strati nascosti della realtà: “senza alcuna crisi, vediamo questo strato”, per poi usare una crisi narrativa che permetta al pubblico di “scoprire gli altri strati della realtà”.

Le Ombre del Presente

Farhadi è anche un acuto osservatore delle dinamiche sociali, descrivendo l’Iran come una “società molto classista” dove la divisione non è sempre evidente. I suoi film esplorano il “combattimento nascosto” e la “violenza nascosta” tra le classi sociali, un tema che ritiene cruciale e legato a religione e politica. Per raccogliere materiale e comprendere le sfumature delle diverse classi, sottolinea l’importanza di “vivere con la gente”, camminare per strada e osservare, criticando i registi che, dopo alcuni film, si separano dalla loro classe d’origine perdendo il contatto con la realtà quotidiana.

Riconosce anche l’influenza profonda del cinema italiano del dopoguerra sul cinema iraniano, in particolare per il suo realismo e la sua natura “più umanistica”. Menziona De Sica e “Ladri di Biciclette”, e registi iraniani influenzati da Fellini come Dariush Mehrjui. In Iran, racconta, ci sono ristoranti e caffè intitolati a Federico Fellini e a “8½”, testimonianza della profonda influenza culturale italiana.

L’incontro non può ignorare la realtà contemporanea dell’Iran e le sue ripercussioni sul cinema di Farhadi. Il regista esprime una profonda preferenza per lavorare nel suo paese natale, dove “conosce quella cultura” e i suoi “paradossi”, ma riconosce le “difficoltà” e le “limitazioni” significative che incontra. Una preoccupazione particolare riguarda il fatto che le donne possano “avere cicatrici” a causa del suo lavoro.

Questa preoccupazione assume un significato ancora più pregnante considerando che Taraneh Alidoosti, la protagonista femminile de “The Salesman”, è stata arrestata dalla polizia iraniana nel 2022 per due settimane a causa del sostegno dato alle proteste seguite alla morte di Mahsa Amini. Per queste ragioni, Farhadi ha deciso di “non fare più film lì per il momento”, contemplando la possibilità di girare “film iraniani liberamente, ma fuori dall’Iran, con attori iraniani”.

Il Cinema come Interrogazione Continua

L’incontro al MAST ha restituito il ritratto di un artista che utilizza il dramma non solo come strumento narrativo ma come mezzo per esplorare la natura umana in situazioni di crisi. Farhadi sfida il pubblico a partecipare attivamente alla comprensione delle complesse verità morali, trasformando ogni visione in un’esperienza di crescita collettiva.

“The Salesman”, Premio per la Migliore Sceneggiatura e il Miglior Attore Protagonista a Cannes 2016 e Oscar come Miglior Film Internazionale 2017, si conferma così non solo come uno dei capolavori del cinema contemporaneo, ma come esempio perfetto di quella “tragedia moderna” che Farhadi ha teorizzato e messo in pratica: un’opera che non offre certezze ma invita alla riflessione, che non giudica ma comprende, che non divide ma unisce nell’universalità del dubbio e della ricerca di senso.

In un’epoca di polarizzazioni e risposte facili, il cinema di Asghar Farhadi ci ricorda che le domande più importanti sono spesso quelle che non hanno una sola risposta, e che l’arte più autentica è quella che sa trasformare ogni spettatore in un pensatore.

 


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