Tra vetro, memoria e impegno sociale: l’artista catalano in mostra a Bologna

C’è un silenzio che pesa nelle opere di Joan Crous. Non è il silenzio dell’assenza, ma quello del tempo che sedimenta, della memoria che resta. Scultore catalano trapiantato a Bologna da oltre trent’anni, Crous lavora con materiali che portano su di sé i segni della vita: vetro riciclato, sabbia, cenere. Fragilità apparente, che nel processo creativo diventa resistenza, memoria, denuncia.
Lo incontriamo in occasione dell’inaugurazione della mostra “Natura morta” alla Galleria Maurizio Nobile Fine Art, dove le sue opere dialogano con l’eredità poetica di Giorgio Morandi. Ma è impossibile parlare con lui senza evocare anche L’Ombra di Guernica, l’imponente installazione esposta nella Basilica di San Petronio, tra le navate di uno dei luoghi più simbolici di Bologna.

Morandi e l’archeologia del quotidiano
“Morandi non si copia, si ascolta”, ci dice Joan Crous, mentre si muove tra le sue sculture esposte in galleria. “Ho provato a cogliere quel silenzio sospeso che appartiene alle sue nature morte e tradurlo nel mio linguaggio. Oggetti quotidiani, bottiglie, ciotole, resi in vetro opacizzato e polveri. Come se il tempo li avesse sepolti e io li avessi riesumati, fossilizzati nel gesto della memoria”.
Nelle sue opere si avverte una tensione archeologica, ma senza nostalgia. Ogni forma è sottratta all’uso, cristallizzata in uno stato di sospensione che interroga chi guarda. “Sono oggetti in attesa. Non raccontano solo ciò che erano, ma quello che potrebbero ancora diventare. Parlano di assenze, ma anche di possibilità”.
L’ombra che attraversa San Petronio
Accanto a questa riflessione intima e formale, c’è un’urgenza civile che anima il lavoro di Crous. L’Ombra di Guernica, esposta fino a fine giugno nella Basilica di San Petronio, ne è testimonianza concreta. “Non volevo rappresentare il bombardamento di Guernica, quello l’ha già fatto Picasso. Io volevo ascoltarne l’eco. Restituire un’ombra, appunto, che ancora si proietta sul nostro presente”.
L’installazione si compone di sagome umane in vetro riciclato, trattato con sabbie e ossidi. Figure spettrali, fragili, che sembrano emergere dal suolo come anime imprigionate. “Sono corpi senza voce – spiega – non gridano, ma la loro presenza è un grido. Stare in un luogo sacro come San Petronio per me non è solo un onore: è una responsabilità. L’arte deve poter dire qualcosa sul nostro tempo, senza retorica, ma con verità”.
Un artista radicato nel sociale
Ma Joan Crous non è solo artista. È anche presidente della cooperativa sociale Eta Beta, realtà bolognese che da oltre trent’anni lavora per l’inclusione sociale attraverso l’arte, il design, la ceramica, l’agricoltura e la ristorazione. Un ponte tra creatività e impegno che riflette la sua idea di arte come strumento attivo nella trasformazione del presente.
“L’arte non è una torre d’avorio. È un laboratorio di vita”, ci dice. “Con Eta Beta abbiamo sempre cercato di costruire relazioni: tra persone, tra materiali, tra mondi. Molti dei miei collaboratori sono artigiani, persone che si sono rimesse in gioco attraverso il lavoro creativo. Lì il vetro non è solo materia, è un’occasione”.

Joan Crous costruisce, letteralmente, sulle macerie. Prende ciò che è fragile e lo rende eterno. Le sue opere non vogliono essere monumenti, ma tracce. Fossili del presente che parlano di guerra, di silenzio, di attese. E anche di cura.
In un’epoca in cui tutto sembra scorrere troppo veloce, Crous ci invita a fermarci. A guardare quello che resta. A sentire l’ombra delle cose.